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2015-2025: DIECI ANNI DI CAMBIAMENTI DELLA RETE E IL NODO DEI CONTRATTI

Ricorreva poche settimane fa il decimo anniversario dall’avvio della disponibilità pubblica (open data) dei dati dell’Osservatorio Prezzi dei carburanti, ma tale circostanza offre motivo per sviluppare un ragionamento non sui prezzi, ma sui cambiamenti nella rete, con un nesso diretto col contesto della discussione (spesso fortemente polemica) sui contenuti del disegno di legge governativo in materia di contratti aziende-gestori.

I punti vendita registrati sono aumentati in dieci anni del 18,2 % (da quasi 20.100 a oltre 23.700, +3.600); i prezzi registrati giornalmente sono passati da 16.100-16.200 a 20.000-20.100 per la modalità self (+3.900/+4.000) e da 12.900-13.000 a 14.100-14.200 per la modalità servito (+1.200), per ciascuno dei due principali prodotti, ossia benzina e gasolio.

Un dato – al di là del numero dei punti vendita – emerge di primo acchito: la quantità di prezzi in self è aumentata oltre tre volte rispetto alla variazione incrementale della quantità di prezzi in servito; dieci anni fa il rapporto prezzi servito/prezzi self era pari a 80/100, dieci anni dopo tale rapporto è sceso a 70/100. Tale rapporto, va precisato, è generalizzato e persino leggermente più accentuato nel segmento dei marchi petroliferi (69/100), nel quale vi è una notevole eterogeneità [si va da un minimo di 44/100 (Kuwait) ad un massimo di 86/100 (Enilive)].

Significa che i punti vendita esclusivamente “selfizzati” sono aumentati dal 20 al 30 % dell’intera rete.

Sono significativamente cambiati anche gli assetti: i punti vendita riferibili ai marchi petroliferi si sono ridotti da poco meno di 16.700 a poco meno di 15.800 (un calo di 900 unità e di oltre 5 punti percentuali), mentre gli indipendenti (tra cui le c.d. “pompe bianche”) sono aumentati da circa 3.400 a oltre 7.900 unità (un incremento di oltre il 130 % e di un po’ meno di 4.600 unità). Se dieci anni fa gli indipendenti avevano una quota del 17 % dei pv dell’intera rete, oggi la quota è salita ad oltre il 33 %).

Per essere precisi, peraltro, qualche migliaio di punti vendita che espongono un brand delle major petrolifere (e quindi contabilizzati a questo segmento) sono in realtà retisti in regime di convenzione oppure sono retisti che hanno acquisito “pacchetti” di aziende uscite dal retail (un esempio su tutti Euro Garages, con oltre 1.000 p.v. a marchio Esso).

La rete si presenta estremamente frammentata con oltre 300 “marchi” registrati all’Osservatorio (mentre ancora un po’ meno di 3.700 punti vendita non sono marchiati, “bianchi” appunto), con una media di 14,8 p.v. per marchio registrato [con un massimo di 228 (uno solo) ed un minimo di 1(91 casi)].

Ad un tanto si associa una notevole variabilità di relazioni commerciali tra la proprietà dei punti vendita e la loro materiale gestione.

Una domanda sensata è: quanti sono oggi i “gestori”, così come tradizionalmente intesi nel panorama delle relazioni commerciali codificati nelle specifiche normative del settore?

Nel tempo, oltre ai consolidati affidamenti in esclusiva di fornitura che prevedono un margine pro-litro ed ai più recenti “commissionari”, si sono diffusi strumenti contrattuali che spaziano dall’associazione in partecipazione alla guardianìa (i c.d. “watchers”) all’appalto di servizi più o meno complesso.

UNEM parla di “7.000” situazioni di appalto nel complesso; dalla analisi delle situazioni di “gestione diretta” nel segmento di rete dei marchi petroliferi si desumeva, circa un anno fa, l’esistenza di circa 3.600 punti vendita in regime di prestazione di servizi in appalto (con un massimo di circa 1.400 in Kuwait , su totali quasi 2.800, ossia oltre il 50 %, ed un minimo di meno di 200 in IP); nel frattempo, come noto, Enilive ha implementato il ricorso a tale strumento, per cui oggi, nei marchi petroliferi, il numero potrebbe essere non lontano da 4.000.

Nella rete delle major, insomma, si ha un doppio effetto derivante sia dalla riduzione dei loro p.v. (come già detto sopra, -900 circa), sia dalla mutazione sostanziale dei rapporti contrattuali di gestione (come appena detto, +4.000 circa).

La risposta alla domanda “quanti i gestori tradizionali?” è: si può ragionevolmente dedurre che dai circa 16.700 di dieci anni fa, il loro numero si sia ridotto ora a circa 11.800 nel migliore dei casi (rimane, infatti, l’incognita di quanto avviene nel mondo dei retisti convenzionati con i marchi petroliferi).

Pur non intendendo – come detto in premessa – parlare di prezzi, almeno un accenno è d’obbligo.

Ma non esattamente mettendoli a confronto nel decorso decennio [i prezzi sono, come dovrebbe essere noto, determinati da una volatilità estrema: eventi geopolitici, fattori tecnici, mercato finanziario e fisico, raffinazione, quotazioni del greggio e dei raffinati, leve fiscali (non così frequentemente volatili, per fortuna)], ma paragonando un elemento che definiamo “margine industriale lordo” (prezzo meno quotazione dei raffinati e meno imposte).

Nel 2015 il margine industriale lordo era pari a 0,145 €/lt (calcolato sui dati del prezzo self c.d. “Prezzo Italia” del MASE), nel 2024 è stato di 0,199 €/lt: un divario di 0,054 €/lt. Inflazione e quindi costi crescenti a parte, anche qui c’è un dato di cui tenere conto, rappresentato dal c.d. costo di bio miscelazione (non compreso nelle quotazioni internazionali dei raffinati), salito di 0,060 €/litro (da 0,010 a 0,070).

A parte un tanto, facciamo riferimento anche a tutti gli altri costi compresi nel margine industriale lordo: un po’ più di dieci anni fa, i costi del sistema distributivo di una importante major sommavano a circa 0,070 €/lt (tra logistica, compensi a convenzionati, royalty, fitti passivi, costo del lavoro, manutenzioni, ammortamenti, costi generali, consulenze, ecc.), senza aggiungervi neppure le spese di marketing e, infine, neppure i compensi ai gestori. In particolare, la logistica si portava via oltre 0,020 €/lt; si cita la logistica, perché è un fattore che non pare certo razionalizzato nel corso degli ultimi anni considerato il permanere di una rete ancora pletorica da un lato, i costi energetici inerenti al trasporto dall’altro lato. Margini alti o bassi? Certo meno elevati di quel che si evince dai sentiments comunemente correnti (e si tenga conto che le vendite in servito – laddove il margine è più elevato – sono relegate ormai a quote attorno od inferiori al 20 % del totale).

Ciascuno di questi aspetti (tutt’altro che marginali) forse non ha avuto sufficiente peso concettuale nel discreto grado di entropia che ha caratterizzato tutto il corso del lungo dibattito (che ha avuto toni anche assai accesi) sulla riforma del settore, in particolar modo sul tema contrattualistica, oggetto di un lunghissimo tavolo (almeno un anno e mezzo) e di reiterate versioni ufficiali od ufficiose dell’articolo 3.

Da un lato la spinta industriale a sdoganare il contratto di appalto (usiamo per brevità di concetto questo termine) ed a comprimere gli spazi di rappresentanza delle associazioni dei gestori, dall’altro (dopo un ufficioso apparente appeasement sulla nuova tipologia contrattuale durato lo spazio di qualche settimana) il rifiuto di queste ultime all’introduzione del nuovo strumento – almeno nei termini in cui era stato proposto -. Al momento in cui scriviamo, sulla base di una proposta ufficiosa del Ministero, sembra che le parti tornino al tavolo per trovare una mediazione accettabile.

Vi sono sullo sfondo alcuni nodi ed alcune sfide: dalla parte industriale la pressione competitiva del mercato e la riduzione dei margini operativi, ma, se davvero l’intento è quello di cambiare la fisionomia della figura del gestore, almeno due sono gli aspetti su cui non è il caso di erigere steccati: a) non può essere un percorso in solitaria senza il riconoscimento del ruolo delle rappresentanze di categoria  e del valore sostanziale e normativo della contrattazione collettiva; b) non si può pensare di “fare nozze con i fichi secchi”, ossia forzare un cambiamento riducendo sotto livelli minimi le condizioni economiche e contrattuali della categoria stessa e disarmando le sue rappresentanze.

Dalla parte delle rappresentanze, vi è un contesto alquanto vischioso: la riduzione “fisica” della categoria, intesa come gestori storici, oggi dispersa in varie gabbie contrattuali e soggetta ad un turnover che ha assottigliato la consapevolezza dei risultati ottenuti in altre epoche (con un potere contrattuale maggiore), le drastiche mutazioni della rete, del mercato, delle politiche commerciali e delle “invenzioni” della controparte.

Ed è invero straordinario come, per anni, si sia più posto attenzione ed energia alla negoziazione dei tradizionali accordi con gli stessi soggetti che, pur rispettando alcune condizioni formali di rispetto delle normative di settore in una parte della rete, dall’altra ritagliavano sempre più ampi spazi a rapporti commerciali spuri, che erodevano quote importanti della base rappresentabile, lasciando aperte sempre più brecce a soggetti privi di tutela e che, per forza di cose, non erano più in grado di riconoscersi nelle tematiche e rivendicazioni dei gestori tradizionali.

Nonostante questo processo, definiamolo con un eufemismo, di “diversificazione” sia maturato progressivamente almeno dal 2012 (ed in taluni casi da ben prima – si pensi agli associati Shell), solo dopo che Enilive ha fatto partire una campagna di “negoziazione” individuale, volta ad una “riconversione” dei contratti, è iniziata una complessa controversia (peraltro molto mirata a quel soggetto) sul tema, anche se, a quel punto, c’erano già – dentro i marchi petroliferi – oltre 3.300 (poi ulteriormente cresciuti) punti vendita in regime contrattuale diverso dalle fattispecie riconosciute. A parte gli aspetti normativi ed economici, a parte il quadro delle relazioni tra industria e rappresentanze, vi è anche un aspetto “culturale” – chiamiamolo così – che possiamo riassumere come stravolgimento della figura del gestore: dopo decenni in cui (qualcuno forse ricorda ancora il tema “albo del gestore”) siamo stati abituati ad identificare come un tutt’uno inamovibile per sempre “gestore-impianto-carburanti”, sul campo questa inamovibilità è stata superata dal mutare delle condizioni operative e commerciali in cui vive l’operatore finale, sono proliferate figure sempre più marginali (come i guardiani) e transeunti, oggi fanno questo mestiere, ma forse ne dovranno fare altri, e, infine, molti dovranno uscirsene dal settore in forza di relazioni contrattuali precarie.

È certamente più difficile esercitare una tutela in questo contesto fluido rispetto a quella esercitata per molti anni (con l’assunto che il “sindacato” garantisce un margine, ma in tempo di cambiamento senza poter garantire dalla pressione del mercato), ma anche in siffatta confusione bisogna organizzarsi, anche mentalmente, per la tutela delle persone e delle piccole imprese. “Quelli che hanno sottoscritto individualmente (condizioni diverse da quelle consolidate) non sono più gestori!” non è una condotta intelligente. Né è consolante doversi “impiccare” alla speranza in una valanga di sentenze che trasformeranno ex gestori, e poi ex appaltatori, in tanti nuovissimi lavoratori dipendenti, a quel punto sotto l’ombrello di tutela di altri soggetti rappresentativi, restringendo ulteriormente la rappresentatività delle organizzazioni dei gestori. Anche per queste nuove figure contrattuali vanno salvaguardati i principi di negoziazione collettiva, di diritto di rappresentanza, di sostenibilità economica anche per questa platea di operatori, vanno ricondotti in quest’area anche quanti oggi ne sono fuori senza tutela. È giocoforza dover negoziare su tutto questo nodo. E nello stesso tempo per ridefinire gli accordi di quella parte che opera ed opererà ancora secondo gli schemi tradizionali.

Si può legittimamente lamentare come diavolo si sia giunti a questa situazione dopo anni in cui le relazioni erano, se non più equilibrate, almeno tutelate maggiormente. Alcuni anni fa, FIGISC provò a proporre l’introduzione di contratti in cui il gestore potesse gestire il prezzo in autonomia (affitto di azienda e contratto di fornitura in esclusiva, ma a condizioni di cessione da extra rete); di un tanto vi sono qua e là alcune tracce (risoluzione parlamentare De Toma e anche altre più recenti): una cosa azzardata che ovviamente poteva non piacere alla controparte, ma che fu “snobbata” dai “chierici” all’interno stesso del mondo “sindacale” (nonostante in passato si fossero avanzate proposte anche più radicali)… Come che sia lo stato dell’arte, nonostante tutta la confusione dell’ultimo anno e mezzo, oggi non vi sono altre vie diverse da quelle di dover negoziare il cambiamento, arginando entro precisi paletti ogni tentativo di imporlo con atti di forza.

FIGISC CONFCOMMERCIO