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LA NEUTRALITÀ ENERGETICA È L’IMPERATIVO PER UNA VERA DECARBONIZZAZIONE

Pubblichiamo di seguito un intervento di LUCA SQUERI comparso sull’ultimo numero di ENERGIA AMBIENTE INNOVAZIONE, rivista dell’ENEA, Agenzia Nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile.

La crisi innescata dal COVID-19 offre un’occasione importante per riflettere sul futuro del sistema energetico, trovare nuovi stimoli e raggiungere gli ambiziosi obiettivi del Piano Nazionale Integrato Energia e Clima. In questo contesto, per una decarbonizzazione vera e sostenibile dal punto di vista economico e sociale, è essenziale la ‘neutralità energetica’, con libertà nelle scelte tecnologiche, la sostituzione integrale del gas e la promozione di tutte le fonti rinnovabili – eolico, fotovoltaico, ma anche geotermia, idrico, biomasse – nel rispetto dei limiti di qualità dell’aria e tutela del sottosuolo. 

di Luca Squeri, X Commissione Attività Produttive, Commercio e Turismo – Camera dei Deputati, Responsabile Energia di Forza Italia

l tema dell’energia è stato fondante e comune per l’Europa a partire dal Trattato di Parigi del 1951 che lo poneva come base del processo di integrazione europea. Oggi resta un tema cruciale, ma i confini sono più ampi considerando che l’utilizzo e l’accesso all’energia e le conseguenti emissioni climalteranti sono ormai

temi condivisi a livello globale. L’obiettivo della neutralità carbonica al 2050 che vedrebbe l’Europa primo continente al mondo carbon-free, è ambizioso e sfidante, ma anche necessario e possibile. Purtroppo, a fronte di generali e pubbliche dichiarazioni di adesione all’idea di accelerare il processo di decarbonizzazione, non sono seguite nel nostro Paese azioni coerenti. C’è una dichiarata promozione del vettore elettrico per favorire il superamento dei combustibili fossili, ma non c’è un piano per generare l’elettricità in modo sostenibile. Da più parti si invoca la mobilità elettrica, ma come viene prodotta ’energia

che la alimenta? Il vettore elettrico non è una fonte primaria, ma un prodotto. Perciò non è mai l’utilizzo di tale vettore che garantisce la sua sostenibilità ambientale. Il tema è la generazione elettrica.

La centralità della produzione elettrica

La Francia che ha oggi una importante produzione nucleare che copre l’85% del fabbisogno, sta de-elettrificando il sistema di riscaldamento degli edifici in vista della conclusione della propria produzione nucleare e ha promosso un programma che prevede l’installazione di 900.000 caldaie a biomassa. La Germania sta valutando come risolvere il problema della discontinuità della produzione elettrica da fonte eolica e solare che rappresenta il 40% della produzione totale di energia elettrica e che arriva a coprire il 75% del fabbisogno in alcuni momenti, mentre scende al 15% in altri. Dunque, il tema è come allineare produzione discontinua e utilizzo al fabbisogno. Nel confronto con Francia, Germania e Spagna, l’Italia si differenzia sostanzialmente per il ruolo quasi esclusivo di driver della de carbonizzazione lasciato al vettore elettrico dal Piano Nazionale Integrato Energia e Clima (PNIEC). Ritengo invece che il raggiungimento degli obiettivi, ambiziosi, del PNIEC non possa prescindere dal principio di neutralità energetica e, dunque, dal sostegno di tutte le fonti rinnovabili e, quindi, da una maggiore libertà in merito alle scelte tecnologiche: non solo eolico e fotovoltaico ma anche geotermia, idrico, biomasse devono poter concorrere, nel rispetto dei limiti dettati dalla qualità dell’aria e dalla tutela del sottosuolo, al raggiungimento di una vera decarbonizzazione.

L’Italia non può trascurare, come invece sta facendo, biomassa e geotermia perché sono sorgenti che offrono grandi possibilità e in massima parte disponibili su tutta la Penisola e sottoutilizzate. Abbiamo in Europa 182 milioni di ettari di bosco. Dal 1990 la superficie è cresciuta del 5,2%. Lo stock di legna è cresciuto costantemente negli ultimi 50 anni e mediamente in Europa si utilizza il 70% dell’accrescimento. In Italia la superficie boscata si è triplicata dal 1951 raggiungendo 12 milioni di ettari, sui 35 totali del Paese. La gestione sostenibile delle foreste e dei prodotti agricoli migliora la capacità di assorbimento del carbonio e sviluppa costantemente nuove capacità di sequestro.

La quantità di anidride carbonica che la foresta assorbe dipende dalla crescita degli alberi, non dalla loro semplice presenza. Le pratiche di selvicoltura e l’utilizzo dei sottoprodotti fino al recupero energetico influenzano decisivamente questo processo. Eppure, utilizziamo solo il 25% dell’accrescimento, tre volte in meno della media europea e siamo il primo importatore di materia prima legnosa.

I pregiudizi sulla biomassa

Esiste un diffuso pregiudizio sulla incidenza della biomassa sulla qualità dell’aria: in realtà, come per tutti i combustibili, mentre la CO2 è il risultato della combustione, le emissioni inquinanti dipendono dalla qualità della combustione e quindi dalla qualità dell’apparecchio in cui avviene la combustione. Esiste ed è diffusa ormai, la tecnologia di caldaie che garantiscono livelli emissivi in termini di inquinamento ambientale paragonabili alla migliore tecnologia a gas mantenendo un vantaggio di riduzione di CO2 del 90% rispetto al gas. RSE ha recentemente prodotto un’analisi molto precisa e condivisibile nel suo Dossier Biomasse.

Un dato su tutti: Germania, Francia e Spagna prevedono al 2030 di produrre il 68% dell’energia termica da biomassa mentre il nostro attuale Governo immagina un contributo di questa risorsa ridotta al 30% e vede irrilevante anche la geotermia. La Commissione Europea ha chiesto all’Italia una maggiore ambizione nella termica rinnovabile, ma nell’Ecobonus di recente emanazione il Governo ha fatto una scelta esattamente contraria.

L’aumento della popolazione mondiale a 9,7 miliardi di persone al 2050, secondo una stima dell’ONU, porterà ad una carenza di terra disponibile per la produzione di cibo. Sacrificare terreno oggi per produrre energia fotovoltaica non appare quindi la strada maestra da percorrere. Il fotovoltaico resta un’ottima soluzione sulle aree costruite e cementificate, ma lo è meno con riferimento ai terreni. Da questo punto di vista, ritengo condivisibili i progetti di revamping e repowering degli impianti esistenti volti a consentire l’efficientamento del parco esistente attraverso l’uso delle Best Available Technologies (BAT) e quindi il prolungamento del suo ciclo di vita senza incrementare l’uso del suolo ad esso dedicato.

Per l’eolico è evidente che il settore continua a scontare, oltre ai numerosi vincoli ambientali dovuti al suo significativo impatto paesaggistico – aspetto non secondario in un Paese come l’Italia – anche il peso di una burocrazia cieca e dannosa. Se le istanze ambientali meritano riguardo è altrettanto importante definire al meglio i tempi dei procedimenti autorizzativi nonché, più in generale, procedere ad una semplificazione del quadro normativo esistente.

Rinnovare il downstream petrolifero

Superare le fonti fossili significa andare oltre il gas e perciò prevedere la sua integrale sostituzione. L’Italia dipende per oltre il 42% dal gas, contro la media europea del 21%. Pur riconoscendo l’estrema importanza nel processo di transizione energetica, abbiamo la necessità strategica di ridurre la nostra dipendenza dal gas a velocità doppia rispetto agli altri Paesi europei.

Cosa può dire del fossile, nel percorso della transizione energetica che ha come obiettivo il suo sostanziale decadimento, chi come il sottoscritto è cresciuto a Metanopoli ed è attivo nel settore della distribuzione di carburanti da più di trent’anni, avendo ricoperto un ruolo importante nella rappresentanza di una parte della filiera? Dobbiamo seguire con la massima attenzione e supportare l’impegno profuso dagli operatori del settore nel processo di trasformazione. Il downstream petrolifero italiano già nel periodo pre-COVID-19 era costituito da un sistema infrastrutturale sovradimensionato rispetto alla domanda, con effetti sulla competitività e sulla sostenibilità economico-finanziaria del settore. La flessione dei consumi causata dal COVID-19 accentuerà e accelererà il trend di calo della domanda già previsto dagli scenari di transizione energetica in flessione di 1-2% all’anno per via dell’evoluzione della mobilità. Da questo punto di vista, è possibile una accelerazione della transizione nella misura in cui saranno assecondati i trend di riduzione dei consumi e promosse, attraverso le misure di sostegno previste per i Paesi europei, iniziative coerenti con gli obiettivi della transizione energetica.

Il settore del downstream petrolifero aveva già avviato una importante fase di trasformazione e, nel post COVID-19, sarà necessario promuovere il consolidamento del processo di riconversione dei siti industriali e delle stazioni di servizio in modo da permettere la produzione e distribuzione di vettori energetici o altri prodotti a basso o nullo impatto carbonico, in sostituzione delle produzioni e vendite di prodotti fossili.

Tuttavia occorre anche garantire il mantenimento, a condizioni più sostenibili, delle produzioni e degli asset tradizionali che saranno chiamati ancora nel prossimo decennio a sostenere il processo di transizione (solo nella mobilità e solo riferendoci ai veicoli light duty, anche gli scenari più aggressivi prevedono circa 6 milioni di veicoli elettrici al 2030 su un totale attuale di 38 milioni circolanti in Italia ed a questi si aggiungono i mezzi pesanti heavy duty). Solo così potremo rispondere in maniera coerente all’esigenza di traguardare la transizione in modo sostenibile anche dal punto di vista economico e sociale.

Esistono già esempi virtuosi nel campo della raffinazione, come nel caso della riconversione in bio-raffinerie delle raffinerie Eni di Venezia e Gela che hanno tolto dal mercato 10 milioni di tonnellate all’anno di grezzo lavorato sostituendolo con circa un milione di tonnellate di cariche di origine vegetale, scarti e rifiuti.

I rifiuti costituiscono una grande opportunità di trasformazione industriale grazie allo sviluppo e applicazione di processi e tecnologie in grado di trasformare i rifiuti urbani, organici e non, e le plastiche non riciclabili in prodotti commercializzabili, come l’idrogeno, il metanolo, carburanti e altro. Gli impianti tradizionali esistenti si prestano alla trasformazione perché possono essere in parte riutilizzati e ci sono le competenze maturate in decenni di attività industriale. Tali progetti si inseriscono nel processo di transizione verso l’economia circolare, dove i prodotti e gli asset vengono valorizzati il più a lungo possibile nel loro ciclo di vita, con il molteplice obiettivo di ridurre gli impatti ambientali, rendere più sicuro l’approvvigionamento, diminuire i costi di produzione e continuare a garantire la competitività degli asset esistenti.

La mobilità resta uno dei capitoli più complessi

C’è una diffusa idea che elettrificare i trasporti sia la soluzione. Lo sviluppo degli accumulatori e dei sistemi di produzione elettrica rinnovabile richiederà alcuni decenni. Oggi per stoccare l’energia di un litro di benzina occorre una batteria del peso di 100 kg. E non c’è la possibilità di produrre energia elettrica rinnovabile per coprire il fabbisogno attuale. La mobilità elettrica richiederebbe il raddoppio dei consumi elettrici odierni e la conseguente capacità produttiva. Il rischio che corriamo è quello di investire grandi risorse e aspettative rincorrendo una tecnologia in evoluzione che ha attese importanti, ma anche criticità preoccupanti. Un esempio?

La rete delle stazioni di servizio, che in Italia sono un numero più che doppio rispetto a quello degli altri Paesi europei e hanno un erogato medio bassissimo (meno di 1,5 milioni di litri all’anno), andrebbe ristrutturata completamente, chiudendo quelle eccessivamente piccole e mal posizionate (come prevede già la Legge 4 agosto 2017, n. 124) per utilizzarle per altri scopi (parcheggi, colonnine di ricarica elettrica ecc.) e migliorando le altre, assicurando la fornitura di nuovi prodotti (idrogeno, biocarburanti puri, biogas compresso e liquefatto, colonnine elettriche) e di servizi diversi alla mobilità, migliorandone la competitività e i risultati economici. Per fare tutto ciò occorre, da una parte, agevolare le trasformazioni industriali, stimolandole e rendendo più facili e veloci le bonifiche necessarie e il riutilizzo delle aree e, dall’altra, dare seguito finalmente alla legge sulla chiusura delle stazioni di servizio piccole e mal posizionate, anche qui agevolando le bonifiche e il riutilizzo delle aree. Si tratta di un percorso complesso che però potrà trovare supporto e stimolo proprio negli interventi europei per la ripresa e nel Green Deal, assicurando il mantenimento dell’occupazione e del tessuto industriale.

La logica complessiva dell’orientamento delle scelte energetiche non può mai prescindere dalla loro sostenibilità economica e sociale. Basti pensare alla tassa sulla CO2. Abbiamo gli esempi virtuosi della British Columbia e della Germania, dove gli sconti sulle bollette sono risultati superiori al gettito dell’imposta e si è riusciti a misurare la reale efficacia delle tecnologie applicate. Ma vi sono stati anche esempi clamorosamente negativi come quello francese, dove alla progressività della tariffa non è seguita una adeguata compensazione sulle bollette. con le conseguenze drammatiche generate dalle proteste dei gilet gialli.

La crisi innescata dal COVID-19 offre dunque un’occasione importante per riflettere sul futuro del sistema energetico e per trovare nuovi stimoli nella transizione. È chiaro che non si tratta di carenza di risorse quanto piuttosto di capacità di indirizzo, di scelte, di orientamento, capacità di governo in ultima analisi.