Proseguono in queste settimane gli incontri con le aziende per la discussione del rinnovo degli accordi economici: martedì 16 è stata la volta di ENI, con cui è previsto un prossimo incontro il 30 settembre, giovedì 18 quella di API-IP, che ha avuto un carattere esclusivamente interlocutorio, per il prossimo mese è già in calendario l’appuntamento con Q8. Finora, va pur detto con chiarezza, nessun risultato concreto è emerso da questo infinito lavoro che dura da due anni – su cui le Organizzazioni di categoria impegnano tempo ed energia e consumano giorno per giorno una frazione di credibilità agli occhi dei propri associati -, e per «concreto» si intende precisamente che non solo non si intravedono aspetti positivi che possano in qualche modo alleviare la situazione delle gestioni, ma che non si è giunti neppure a definire quanto meno un punto fermo [con l’eccezione di ESSO], una specie di «tregua» rispetto alla deriva peggiorativa che caratterizza la situazione delle politiche commerciali e dei rapporti tra aziende e gestori.
L’ultima sollecitazione da parte di un Governo a rinnovare gli accordi risale ormai al luglio del 2012. Da due anni a questa parte – cioè da quando sono scaduti i precedenti accordi – in questo settore, al di là della crisi economica generale e del crollo dei consumi, molteplici fattori hanno contribuito a far cadere a picco una situazione già precaria. La responsabilità sta inequivocabilmente da una sola parte: è fin troppo evidente che la distribuzione è ormai una palla al piede per l’industria petrolifera, c’è chi ha mollato il mercato italiano, chi lo sta mollando, tempo infinito si è perso ad aspettare una ristrutturazione che nessuno realmente vuole fare, ancora di più a non discutere di nuove forme contrattuali previste dalle norme sulle liberalizzazioni, l’unica strategia commerciale essendo stata quella di acuire il divario di prezzo tra rete ed extrarete, l’unica soluzione essendo stata quella di far pagare ai gestori il costo di politiche commerciali che durano la vita di una falena, di disapplicare gli accordi preesistenti con continue riduzioni di margine, di diffondere nuove forme contrattuali non previste dalle norme, di portarsi a casa la rete ghost. Pensare di rimettere rapidamente ordine in questo stato di cose è come pensare di svuotare il mare col cucchiaio da minestra.
Sarebbe illusorio pensare oggi ai tavoli con le aziende come si pensava fino a qualche anno fa: gli accordi si rinnovavano, fra vari tira e molla, tra pressioni crescenti per introdurre «flessibilità», generalmente con minimi aumenti del margine economico. Oggi ci si arriva non perché la preoccupazione primaria delle aziende sia certo quella di rinnovare gli accordi, ma perché le aziende devono anzitutto discutere di politiche commerciali sulle quali non vi è né certezza né stabilità [né idee chiare da parte della stessa azienda], ci si arriva a terra bruciata, dopo che l’azienda ha battuto da tempo il territorio, uomo per uomo, strumentalizzando le difficoltà e lo stato di dipendenza economica del gestore, ci si arriva con proposte economiche che, ma proprio nel migliore dei casi, escludono in partenza un adeguamento economico migliorativo e che puntano, come già da tempo accade, ma sempre di più, a frantumare il margine in mille nicchie dipendenti da variabili del tutto ipotetiche, in modo che sia difficile non solo difendere «l’intangibilità del margine», ma addirittura determinare «se», «come» e «quanto» sia davvero il «margine» medio, qualunque esso sia rispetto al passato in più od in meno.
Si può forse cogliere nell’ultimo incontro con ENI – ma con una forte dose di ottimismo della volontà, perché con il pessimismo della ragione si potrebbe anche pensare che si tratti di una nuova tattica per prendere tempo o semplicemente solo di un modo «più cortese» di relazionarsi formalmente con la controparte – un clima relativamente più disteso rispetto a quello che era lo standard delle precedenti trattative, uno sforzo di fare ragionamenti comuni [essere d’accordo sul confrontarsi non significa certo ancora essere necessariamente d’accordo sui contenuti e le soluzioni] sulla crisi del settore, su politiche commerciali meno avventuristiche, sulla funzione del gestore [forse è meglio chiamarla così, perché sussiste, visti i precedenti ed i fatti, un più che legittimo dubbio che l’azienda pensi esattamente in termini di «centralità» del gestore] nella rete di marchio, sulla ristrutturazione della rete distributiva, il tutto seguito anche dalla dichiarazione aziendale di voler predisporre per il prossimo incontro una sua nuova versione di proposta economica [e va precisato che finora su questo piano le proposte sono state deludenti].
Per certo i fatti che ogni giorno avvengono sui piazzali continuano ad essere quelli di sempre.
Anche se va detto che ENI, che pure porta una pesante responsabilità rispetto al degrado in cui è stato condotto il settore, rimane pur sempre forse l’unico soggetto, da leader del mercato, in grado ancora di invertire alcune tendenze e riscattare in parte il degrado rimettendo al centro il valore della rete, degli assetti, del prezzo.
Ma c’è un nodo fondamentale che va al di là di ogni possibile accordo con chiunque rinnovato o riscritto e che in ultima analisi vanifica qualunque risultato contrattuale e rende gli accordi «aria fritta», ed è quello del prezzo cui viene ceduto il prodotto nella rete. Come abbiamo già detto – e cento volte continueremo a ripeterlo! – questo mercato vive di una concorrenza drogata ed artefatta che si regge sulla anomalia di una discriminazione a monte tra gli operatori che non trova giustificazione né sul piano dei costi reali, né su quello dell’utilizzazione del marchio, né su quello della diversa soggettività degli investimenti: ed in questa concorrenza l’unico soggetto discriminato è il gestore della rete di marchio, nei confronti del quale viene stornata la clientela e quindi l’erogato in funzione di una incolmabile potenzialità competitiva.
Ed infatti ciò che ha mandato in default la categoria non è solo la riduzione del margine, frammentato a seconda delle modalità e sottomodalità di servizio, ma altresì la progressiva decurtazione dell’erogato a favore di chi gode di condizioni privilegiate nell’accesso del prezzo di cessione [ossia oggi, tra indipendenti e ghost di marchio, almeno il 30 % della rete].
Torniamo dunque al concetto delle così dette «condizioni eque» – una delle ennesime enunciazioni «sterili», ancorché contenute in leggi dello Stato -, per sottolineare almeno due cose:
– affidarne l’applicazione semplicemente all’accordo tra le parti – negli accordi o contratti che siano – significa volerle privare di ogni significato, mantenerle come principio astratto e renderle arbitrarie sul piano interpretativo, ossia inefficaci sul piano pratico;
– se esse non sono precisate nella legge, chiederne l’adempimento ed il rispetto e contestarne l’abuso è semplicemente impossibile; quella norma, cioè, va integrata e specificata.
Risolvere questa anomalia, dunque, non è dunque solo un problema del settore, che anzi l’ha scientemente determinata.
Il 70 % del prezzo dei carburanti dipende da dinamiche interne: lo Stato italiano determina il 60 % del prezzo dei carburanti, il 10 % del prezzo è il peso del sistema distributivo – ed è lì che si annidano le anomalie del prezzo di cessione e gli artifici della concorrenza drogata -, un altro 30 %, infine, è questione di mercati internazionali [checché se ne dica, un litro di benzina raffinata prima delle tasse e dei costi distributivi costa quasi uguale da un emisfero all’altro del mondo].
Possono Governo, Parlamento, Authority, chiamarsi fuori dal problema e lasciare che i trucchetti che avvengono sul 10 % del prezzo possano pareggiare per il consumatore quel che si gli sottrae con il 60 %, ad onta di ogni regola vera di mercato e concorrenza e sacrificando imprese ed occupazione?
La questione vera, dunque, va ben al di là di ogni accordo o contratto, di cui non è affatto un astratto «accessorio». [g.m.]